29 Novembre 2005 - Conferenza Stampa
"L'enfant - Una storia d'amore"
Intervista ai registi Jean-Pierre Dardenne e Luc Dardenne.
di Federico Raponi


Il sottotitolo dell' edizione italiana e' "una storia d' amore". Chi lo esprime, verso chi e di quale amore si parla?
E' l' amore che scopre Bruno (il protagonista, ndr). Lui all' inizio non prova sentimenti, vive in emergenza, dei suoi piccoli traffici, per sbarcare il lunario. Il bambino e la compagna gli fanno scoprire l' amore. Riguardo alla genesi de "l' enfant" raccontate di aver visto, durante le riprese del film precedente, una ragazza spingere una carrozzina. Sembra un po' riduttivo, le vostre opere non sembrano casuali, c'e' un' attenzione alla marginalità e una critica verso la società.
Speriamo che ci sia anche un po' di posto per la casualità. Girando l' altro film abbiamo colto l' immagine di quella giovane. Ci e' tornata in mente per l' enfant. All' inizio, pensavamo ad una mamma in cerca di un padre per il suo bambino, poi l' uomo lo abbiamo messo, ma non e' un padre. Il resto e' un mistero.

Zavattini si limitava a seguire, registrare l' azione senza intervenire. Ha avuto importanza nella vostra formazione?
Non si e' mai liberi, anche se lo si pensa. Anzi, proprio allora non lo si e'. E' chiaro, abbiamo visto i film a cui fa riferimento: Pasolini, Rossellini. Inizialmente non lo abbiamo capito quando eravamo impegnati sul set, poi questo background e' tornato e ci ha aiutato nel lavoro. Questo metodo di girare spiega nel modo piu' semplice quello che avviene. Come spettatori potete avere così la sensazione di avere amici nei nostri film.

Nelle vostre opere non esprimete un giudizio morale. Cosa volete trasmettere?
Per noi un film non e' un' aula di tribunale. Amiamo i nostri personaggi, anche quelli cattivi. Sono legati al mondo che li circonda, come Bruno che e' un emarginato. Ci piacciono le storie iniziatiche. Quello di Bruno e' un viaggio verso la sua umanità, chiede notizie del bambino, si lascia andare ad un fiume incontrollato di lacrime che neanche sospettava di poter esprimere.

Quali sono gli sbocchi di questa società, verso dove stiamo andando?
Si potrebbe parlare in maniera claustrofobica, di una società priva di senso. Ma quando qualcuno si alza in piedi per protestare o porre una riflessione, e' un segnale di speranza. La vita e' qualcosa che vale la pena, come la società, anche se meno rispettosa dell' uguaglianza, piu' ingiusta di 30 anni fa. In Francia, Belgio, Inghilterra c'e' un movimento - "ne' puttane ne' sottomesse" - di donne musulmane, principalmente magrebine, che rivendicano una triplice emancipazione per la donna, la religione, le disuguaglianze sociali. Per noi sono gli unici temi per i quali bisogna lottare.

Come lavorano i fratelli Dardenne?
C' e' un terzo fratello, noi - scherzano - facciamo spettacolo, lui lavora. Facciamo così: siamo sempre insieme sulla scena e, dopo aver provato, uno dei due va al monitor. Poi esaminiamo il girato. Alla sceneggiatura pensa Luc.

E con gli attori?
Ci lavoriamo, senza segreti. Abbiamo trascorso un mese e mezzo con i protagonisti, non per una questione di efficacia, ma per ottenerne la fiducia, fare in modo che si abbandonassero a noi. Proviamo anche a sentire lo spirito del luogo, lasciarci abitare da esso. Proviamo l' azione, cerchiamo di capire la nota, quello che sara' il carattere distintivo del film.

Quanto avvenuto a Parigi (la rivolta delle periferie, ndr) vi ha dato l' idea per parlare di un disagio collettivo?
Una società che ha paura dei propri figli e' destinata alla morte. La prossima storia sara' quella di una donna, una madre che vive nella periferia con figli molto violenti.

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