District 9
A partire dalla sua pellicola d’esordio "Bad taste-Fuori di testa", il neozelandese Peter Jackson – oggi famoso per aver portato sul grande schermo l’epopea tolkeniana de "Il Signore degli Anelli" – non ha mai nascosto un certo amore rivolto agli esseri provenienti da un altro mondo, come pure ha avuto modo di dimostrare interesse per il mockumentary tramite lo stupefacente "Forgotten silver", co-diretto per la tv insieme a Costa Botes.
Quindi, non si tratta forse di un caso se lo troviamo nelle vesti di produttore del lungometraggio d’esordio del sudafricano Neill Blomkamp, il quale, prendendo spunto dal suo short "Alive in Jo’burg", unisce lo stile del falso documentario alla tematica degli invasori spaziali.
Invasori spaziali che, approdati sulla Terra vent’anni prima e ribattezzati "gamberoni" dagli umani a causa dell’aspetto simil-crostaceo, cominciano ad essere cacciati dalla patria provvisoria District 9, in Sudafrica, dalla società privata MNU (Multi-National United), la quale non solo non ha alcun interesse verso il loro benessere, ma otterrebbe immensi profitti se dovesse riuscire a far funzionare le potenti armi aliene, per l’attivazione delle quali occorre il DNA extraterrestre.
E, tra interviste a personaggi inventati e nigeriani che raccontano di mangiare parti delle creature perché convinti di acquisirne i poteri, è attraverso il ricorso al veloce montaggio e all’abbondanza di riprese a mano che il regista tenta di evocare il flusso di notizie offerto quotidianamente, 24 ore su 24, dai canali via cavo e da internet, conferendo realismo a un’assurda vicenda fantascientifica ispirata ai classici del genere.
Vicenda che, tecnicamente confezionata con grande professionalità e scandita dal coinvolgente ritmo narrativo enfatizzato dalle massicce dosi d’azione e movimento, migliora man mano che i fotogrammi avanzano, tra risvolti horror e accenni di splatter; fino a tirare in ballo la figura del povero Wikus van der Merwe (Sharlto Copley), il quale, contratto un virus non appartenente al nostro pianeta, comincia a subire una progressiva mutazione di angosciante taglio cronenberghiano.
Senza dimenticare una spruzzata d’indispensabile ironia e con effetti digitali usati a dovere, per circa 112 minuti di visione che lasciano tranquillamente emergere un intelligente messaggio antirazzista relativo all’importanza di trovarsi nei panni dell’altro (inteso come "diverso") prima di giudicarlo in maniera negativa e disprezzabile.

La frase: "Adoro guardare i gamberoni morire".

Francesco Lomuscio

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